Vecchietta al Santa Maria della Scala. Una nuova visione per il complesso museale: la mostra a Siena
È da questa consapevolezza di un rapporto unico e fondativo che muove il nuovo allestimento delle sale monumentali dell’Ospedale. La Sagrestia Vecchia (con l’Arliquiera riposizionata) ritrova la sua funzione di reliquiario architettonico e i suoi affreschi sono resi di nuovo leggibili; il Cristo bronzeo della Santissima Annunziata, uno dei vertici della scultura italiana del Quattrocento, è per la prima volta osservabile da vicino. Il Pellegrinaio torna al centro della visita sgombrato da allestimenti che agli occhi di oggi sembravano troppo invadenti
Promosso dal Comune di Siena, il progetto nasce da un’idea di Cristiano Leone, presidente della Fondazione, con la curatela di Giulio Dalvit, associate curator alla Frick Collection di New York, e comprende anche la pubblicazione della prima monografia critica dedicata all’artista dal 1937, dal titolo Vecchietta,sempre a cura di Giulio Dalvit, disponibile sia in inglese che in italiano, che ripercorre l’intera sua opera, restituendone il profilo in una prospettiva storiografica aggiornata e internazionale. Il volume è edito da Paul Holberton Publishing di Londra ed è stato pubblicato in collaborazione con la Frick Collection di New York e vede - per l’edizione in italiano - il contributo della Fondazione Antico Ospedale Santa Maria della Scala.
Il Pellegrinaio
Nel 1328 l’Ospedale si ampliò con la costruzione di un pellegrinaio maschile, che solo in seguito, dopo altri lavori, fu chiamato “pellegrinaio di mezzo”. Sotto il rettorato di Giovanni di Francesco Buzzichelli (1434–44), questo spazio venne trasformato in sala di rappresentanza: non più dormitorio, ma luogo in cui l’istituzione metteva in scena, attraverso un ciclo monumentale di affreschi, la propria identità e missione. Le volte, con cinquantasei santi dipinti da Agostino di Marsilio, sovrastano le pareti divise con chiarezza: a destra Domenico di Bartolo illustra le opere quotidiane della carità ospedaliera; a sinistra Vecchietta, Priamo della Quercia e lo stesso Domenico raccontano la storia dell’ente. L’ultima campata fu aggiunta soltanto nel 1577, mentre il grande tavolo di Flaminio Del Turco, eseguito all’inizio del Seicento, fu collocato nella sala nel 1783. Il primo episodio della parete sinistra è di Vecchietta: la Visione del beato Sorore (1441), sua prima opera firmata. Sorore – oblato leggendario e fondatore dell’Ospedale – è inginocchiato davanti a un canonico del Duomo. Si indica gli occhi o la fronte, a conferma di ciò che vede con chiarezza e che rimane invisibile agli astanti: tre bambini nudi, le anime dei gittatelli raccolti dall’Ospedale, che salgono una scala a pioli fino alla Vergine, pronta ad accoglierli per i polsi. Invisibile a tutti, tranne che a due giovani ai margini: sono il Vecchietta e suo fratello Nanni, anch’egli impegnato nel pellegrinaio (anche se in un ruolo secondario). La loro presenza non è un vezzo, ma un’affermazione di ruolo. Come afferma il breve dell’Arte dei pittori, l’artista è un “manifestatore di cose miracolose”: Vecchietta, diversamente dagli altri, deve vedere. È il tramite tra la visione e la sua rappresentazione, colui che rende visibile l’invisibile. Nella sua prima impresa nota, Vecchietta affronta un’iconografia senza precedenti, che si comprende solo alla luce della storia dell’Ospedale. L’edificio, infatti, sorge “ante gradus maioris ecclesie”, davanti alla lunga scalinata del Duomo: gradini reali che ne sancivano la posizione subordinata rispetto alla cattedrale. Ma già negli emblemi ospedalieri quella scalinata si era ridotta a una scala a pioli: nell’affresco di Vecchietta, questa scala a pioli trova finalmente una sua origine mitica – non più gradus che conducono al Duomo, ma una scala verticale, miracolosa, apparsa miracolosamente al fondatore dell’Ospedale. Vecchietta non proseguì il suo lavoro oltre questa campata. Dal 1442 la parete fu continuata da Domenico di Bartolo e poi da Priamo della Quercia. Forse l’artista aveva lasciato Siena per Castiglione Olona, presso Varese, anche se parte della critica colloca quel soggiorno lombardo in anni precedenti. In ogni caso, l’Ospedale non interruppe mai il suo rapporto con lui, affidandogli in seguito la Sagrestia Vecchia e il monumentale ciborio bronzeo della chiesa.
La Sagrestia Vecchia
Nel 1359, l’Ospedale di Santa Maria della Scala mise le mani su un tesoro che veniva da lontano: un gruppo di reliquie provenienti dal palazzo imperiale di Costantinopoli: un lembo del velo della Vergine; un Evangeliario greco in una coperta di smalti e oro; persino un chiodo della croce di Cristo, insieme a molti altri. La città intera le accolse in processione. Per Siena, affacciata sulla via Francigena, e per l’Ospedale, era un colpo magistrale: il pellegrino aveva un motivo in più per sostare (e donare il proprio denaro). A meno di cento anni dall’acquisto, si decise di dare a quel tesoro un guscio più degno (e più sicuro) di quanto fosse la Cappella del Manto in fondo alla chiesa della Santissima Annunziata, dove le reliquie erano custodite in precedenza. Tra il 1445 e il 1449, grazie all’opera di Vecchietta, l’intera stanza viene a costituire un gigantesco reliquiario architettonico. La sagrestia diventa una camera-codex: il Credo apostolico (“Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra…”) si srotola lungo le lunette dell’intera sala come un testo dipinto, ogni articolo affiancato dal suo apostolo e, nel registro inferiore, dalla sua prefigurazione veterotestamentaria. È la Concordia Testamentorum: un ciclo di una complessità ed erudizione senza precedenti. Al centro della volta un Cristo benedicente, attorno i dottori e i profeti, e ovunque cartigli, libri, iscrizioni: la catena di trasmissione della parola di Dio—ribadita qui contro i dubbi avanzati solo nel 1444 da Lorenzo Valla sull’origine apostolica del Credo. Incastonata tra gli affreschi al fondo dell’arco che ancora ne registra la forma era l’Arliquiera, armadio ligneo dipinto per custodire le reliquie: da chiusa, mostra un pantheon civico di santi e beati senesi; da aperta, si apre a un ciclo della Passione, che integra e completa gli affreschi, inserendo santi e beati locali (e il loro martirio) in una storia millenaria della rivelazione divina. La lunga firma di Vecchietta a chiusura del ciclo garantisce, insieme ai documenti, la sua autografia. Il cantiere è, però, collettivo: due adolescenti, Guasparre d’Agostino e Benvenuto di Giovanni, lasciano la loro firma cifrata in caratteri pseudo-greci sul mantello di un personaggio in bianco nella Visione di Daniele nella settima campata, sotto il Giudizio Universale. Un graffito quasi clandestino, ma eloquente. In seguito all’ampliamento della chiesa già negli anni Settanta del Quattrocento (quando il ciborio di Vecchietta viene posto sull’altar maggiore), la sagrestia (ora “vecchia”) divenne inservibile come tale e venne trasformata in cappella della chiesa. Nel 1476 Francesco di Bartolomeo eresse un baldacchino marmoreo per un altare, che due secoli dopo (nel 1610) verrà ad accogliere la Madonna della Misericordia di Domenico di Bartolo, anch’essa trasportata dalla Cappella del Manto, di cui era eponima. Gli affreschi vennero imbiancati, e la stanza degradata nel corso dei secoli a guardaroba, biblioteca, aula scolastica. Oggi, davanti alle rovine della gloria che fu, occorre uno sforzo di immaginazione. Ma la Sagrestia Vecchia resta un unicum: reliquiario totale, reliquia essa stessa. Un luogo in cui Siena, attraverso Vecchietta, mise in scena il libro come Credo, come immagine, e come atto politico.
La statua del Salvatore (dalla cappella funebre dell’artista)
Nel dicembre del 1476 il Vecchietta scrisse al rettore e ai savi dell’Ospedale con una richiesta inaudita: voleva una cappella funebre per sé nella Santissima Annunziata, da dedicare al Salvatore. Primo artista della storia occidentale a pretendere un simile privilegio, si impegnava a dotarla di due opere: una pala d’altare con la Madonna con il Bambino e santi (oggi nella Pinacoteca Nazionale) e un Salvatore in bronzo già iniziato. La proposta venne accettata nel febbraio 1477; due anni dopo, nel testamento, Vecchietta dichiarava la cappella sua erede universale. Dove questa cappella si trovasse, e che forma avesse, è difficile da stabilire: probabilmente “ai piedi della chiesa”, verso la Cappella del Manto, come suggeriscono alcune fonti antiche. Visto che l’ampiezza della chiesa nei secoli non è cambiata, doveva probabilmente constare di una nicchia nel muro, tappata dalla pala e preceduta da un altare su cui si ergeva il Salvatore: un insieme che, suggellando la carriera di un artista che operava a cavallo tra i media, creava una Pietà sculto-pittorica che assomigliava molto a una Messa di San Girolamo (cioè il soggetto iconografico, diffuso tra Quattro e Cinquecento, in cui il dottore della Chiesa è raffigurato celebrante all’altare mentre il Crocifisso prende vita sull’altare). Questo Cristo bronzeo, ancora oggi al centro dell’altare maggiore, è un caso isolato. Mai prima di allora una statua monumentale del Salvatore a tutto tondo era stata posta su un altare; mai il bronzo era stato scelto per un’immagine simile. La Chiesa stessa aveva diffidato a lungo di statue preziose sugli altari, temendo il richiamo degli idoli antichi. Qui, sostenuto dalla pala dipinta, il Cristo portava sull’altare tutta la potenza eucaristica del sacrificio: la corona di spine sul capo, il corpo stremato ma capace di schiacciare il serpente del peccato originale. Vecchietta, settantenne, affrontava per la propria tomba un’impresa tecnica e finanziaria immane: un atto devozionale, ma anche un monumento perpetuo alla sua arte di pittore e scultore. La cappella perse presto la sua funzione. Già nel secondo quarto del Cinquecento, e certamente entro il 1575, la statua era stata trasferita all’altare maggiore, dopo lo spostamento del ciborio del Vecchietta in Duomo nel 1506. Qui il Cristo fu affiancato dagli angeli-candelabro di Accursio Baldi (1500) e, un secolo e mezzo più tardi, dal Cristo morto dell’antependio di Giuseppe Mazzuoli (ca. 1670). Nel Settecento, venne dipinto l’affresco con la Piscina probatica di Sebastiano Conca (1726–27) a fargli da sfondo. Riconfigurato come Risorto al culmine dell’altare maggiore, il Cristo del Vecchietta è rimasto troppo a lungo sconosciuto, tanto al pubblico quanto agli studiosi. Ma resta, nel cuore della Santissima Annunziata, uno dei vertici della scultura italiana del Rinascimento – ora, finalmente, accessibile.
Informazioni
Complesso Museale Santa Maria della Scala
Piazza del Duomo, 2 - Siena
https://www.santamariadellascala.com/
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